La fuga e l’eroe
Era la fine del 1400. Dall’inizio del secolo, e ancora prima, si combatteva l’avanzata turca in Europa. Il più grande esercito dell’epoca, quello ottomano, era guidato da Murat I e successivamente dal figlio Maometto II. Entrambi erano animati dal desiderio di estendere il proprio dominio, per conquistare quello che un tempo era il glorioso Impero romano d’occidente.
I principati della terra delle Aquile, l’allora Albania, erano divisi e soggiogati dall’espansione turca. Anche Giorgio Castriota, principe della città-fortezza di Kruja, da giovane era stato fatto prigioniero dagli ottomani e avviato alla carriera militare. Come comandante dell’esercito turco Giorgio Castriota era stato soprannominato Generale Alessandro, Iskander Bay, paragonato per intelligenza e capacità militare ad Alessandro Magno. E quel nome in patria si trasformò presto in Skënderbej. All’apice del successo però Skanderbeg decise di disertare dall’esercito ottomano e di fermarlo. Finché fu in vita Skanderbeg, la più grande potenza militare dell’epoca non riuscì mai a superare l’invincibile resistenza messa in atto dall’eroe albanese. Sostenuto dal papato, da Venezia, dal Re di Napoli e da altre potenze europee, con un manipolo di trecento fedelissimi soldati e di poche migliaia di uomini, per oltre vent’anni, vinse decine di battaglie nell’aspro territorio albanese.
Soldati fedeli al servizio del regno di Napoli
Skanderbeg con i suoi uomini giunse in Italia più volte, in particolare nel 1462 ebbe un ruolo determinate per sedare la rivolta dei Baroni che sovvertiva il regno dell’amico Ferdinando d’Aragona Re di Napoli, detto Ferrante. Ottenne in segno di riconoscenza ampi possedimenti in Italia meridionale, tra questi Monte Sant’Angelo, sul Gargano, il più importante santuario dell’epoca. Ma fu solo alla morte di Skanderbeg che si verificò l’esodo più massiccio di albanesi, non più soldati, ma profughi che sfuggivano all’avanzata turca.
La riconoscenza dei Re
Nei primi anni del ‘500 la regina Giovanna d’Aragona, moglie del Re di Napoli Ferrante II, nei suoi feudi dotali di Guglionesi e Isernia, richiamò molti albanesi. A Guglionesi si stanziarono nella zona più alta del paese, presso la cinta muraria del Portello, e si organizzarono in forma autonoma anche dal punto di vista urbanistico. Cattolici di rito greco–bizantino, adattarono infatti alle esigenze di tale culto la chiesa di San Pietro. La testimonianza della loro fede viene resa da un celebre trittico in legno su fondo oro, opera di un artista albanese ivi dimorante, Michele Greco da Lavelona (Valona). La preziosa tavola reca la seguente scritta: “Hoc opus factum fuiti tempore domini liberatoris archipresbiteris San Pietri, sub anno incanationis 1508”.
La grande ricostruzione
Gli albanesi, per vari motivi, tra i quali la difficile convivenza con le popolazioni locali, ma soprattutto per la necessità che aveva l’Università di Guglionesi di aumentare le proprie rendite, furono mandati a ripopolare i casali distrutti dal terribile terremoto del 1456 e dalle pestilenze, per dissodare e mettere a frutto i terreni incolti. Questa fu la ragione principale del ripopolamento dei casali di Montecilfone, Torre Francara e Portocannone. Ma non solo. Ururi, Campomarino e Santa Croce di Magliano, furono altre località ripopolate da albanesi, richiamati in quei territori dai feudatari laici o ecclesiastici, come Andrea da Capua che avendo acquistato il casale di Campomarino, lo aveva assegnato nel 1495 ad una colonia di albanesi. Lo stesso dicasi di Ururi, già mensa vescovile della diocesi di Larino, fu anch’esso assegnato in enfiteusi “per l’annuo censo di ducati trecento” al capitano albanese Teodoro Crescia, “per lui ed i suoi discendenti in linea diretta”, nel 1561.
Una memoria preziosa
Le popolazioni albanesi, insediatesi nei territori assegnati, fondarono agglomerati urbani molto simili a quelli dei paesi d’origine. La struttura urbanistica che caratterizzava le abitazioni e lo stile di vita di queste popolazioni era la Gjtonja, un quartiere dove si svolgeva la vita sociale degli abitanti, con una tipologia propria delle abitazioni costruite su due piani con scale esterne e loggiato, ancora esistenti nel centro storico di Portocannone e Campomarino. Nel corso dei secoli la popolazione albanese si è unita a quella locale. Oggi, di quella antica stirpe, solo la lingua ne conserva la preziosa memoria.